Noi, una storia Speciale

Alice ha vent'anni, vive con la madre e nei momenti migliori si sente una ragazza come tante: una vita di provincia, pochissimi amici, un lavoro part-time, l’università e un fidanzato non troppo innamorato. 
I momenti peggiori sono quelli dell'ansia, delle crisi depressive e della paura di non riuscire più a reggere il senso d’inadeguatezza che si porta dietro da sempre. Tutto scorre come al solito fino a quando strani incubi iniziano a sconvolgerle le notti e il misterioso ragazzo dagli occhi blu comparso in sogno inizia a frequentare le sue stesse lezioni. 
Nell'istante in cui i suoi occhi incrociano quelli di Alex, un inconscio presagio la avverte che qualcosa di brutto sta per accadere nella sua vita. 
In un crescendo di angoscia, che come una marea si ritrae soltanto per tornare più forte di prima, inizia a vivere una vita parallela nei sogni, una vita fatta di oscure visioni di morte e irragionevole amore. 
Complici un misterioso libro venuto dal passato, un’inquietante leggenda e un'antica fontana dalle acque color sangue, realtà e sogno s’intrecceranno sempre più indissolubilmente fino all'invitabile epilogo, quando la morte restituirà un senso a ogni cosa.


Frammenti di Noi
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All’improvviso la scena cambiò e lei si trovò in un bosco, circondata da secolari querce e deliziata dal melodioso canto dei merli, dei cardellini e di vezzosi usignoli che sembravano fare a gara per darle il benvenuto. Trascorse appena qualche istante e fu già buio. Distese di lucciole tempestarono di puntini luminosi il manto erboso e le fronde degli alberi, al punto che non era più possibile, nell’oscurità di quella serata senza luna, distinguere il manto stellato del cielo da quello della terra, per una volta egualmente brillante e luminoso.
Sapeva che come tutti i boschi, anche quello aveva una doppia anima: tanto verde, fresca e vitale durante gli afosi e assonnati pomeriggi estivi, quanto solitaria e cupa nelle gelide e interminabili notti invernali… e in quel momento lei si trovava nel regno dei rapaci, gufi, barbagianni e civette, che con l’echeggiare del loro stridulo lamento sembrano evocare antichi dolori di un’epoca che fu. Rabbrividì nel leggero abito di lanetta bordeaux, largo abbastanza da permettere al vento gelido di sfiorarle avidamente la pelle.
Ma non aveva paura, perché sapeva con certezza che anche lui era lì da qualche parte.

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«La Fontana Rossa» bisbigliò. Sentì che Alex stava annuendo col capo. Per la prima volta la baciò sul collo, premendo le labbra umide sulla sua pelle, e la strinse più forte a sé in un abbraccio di ferro, come se avesse paura che potesse scappar via.
In quel momento una civetta squarciò con un grido il silenzio solenne dei boschi.
Come obbedendo al suo comando, il vento cessò di percuotere i rami robusti, immobilizzando le ombre delle lanterne.
Il tempo si era fermato ancora una volta.

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Un giorno aveva preso in mano un dizionario e l’aveva sfogliato a lungo, per ore intere; cercava le parole giuste, perché si era convinta che se solo le avesse trovate e fosse riuscita a esprimere a voce o per iscritto quello che sentiva, a tradurre in un qualcosa di vagamente comprensibile la matassa aggrovigliata che aveva dentro e che minacciava di soffocarla, sarebbe stata subito meglio.
Ma le parole che cercava non esistevano.

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Il ragazzo la imboccava scherzosamente con il suo cucchiaino, mentre sotto il tavolo con l’altra mano calda e umida le accarezzava una gamba, spingendo sempre più su la sottile lana del vestito. Arrossì di piacere e scostò il cucchiaino per dargli un profondissimo bacio al cioccolato.


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Si strinsero la mano qualche secondo più del dovuto, e lei si sentì avvolta in una presa calda e forte. La stanza prese a oscillare leggermente, i colori sbiadirono in una nebbiolina opaca e il pavimento sotto i piedi sembrò farsi molle e poi ritrarsi.

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La fontana era lì, immobile ed eterna, trionfalmente sicura nella sua antica maestosità, e l’acqua vi sgorgava come sempre. Qualsiasi cosa mi succeda intorno, sembrava voler dire, io sono qui e ci rimarrò fino alla fine dei tempi.


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Guardò il cielo stellato fuori dal finestrino e accolse il ragazzo tra le sue gambe.
Si aggrappò a lui per non perdersi mentre sentiva lacrime calde scivolarle sulle guance e raffreddarsi velocemente a contatto con la pelle marmorea del suo collo teso.
Certe volte il sesso era l’unico modo che conosceva per non pensare.

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Salendo per i sentieri interni, ripidi e poco battuti, il vento le aveva agitato i capelli. Si era stretta così forte a lui da sentirgli le ossa, si era persa nel profumo della sua maglia di cotone che le ricordava i bagnetti dell’infanzia, la pioggia sui capelli appena lavati e il sapone che la nonna strofinava sui panni nei pomeriggi d’estate.

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Non era dolore da lacrime quello. Era piuttosto la fine di tutto.
Dei suoi sogni infantili, della speranza, della fiducia nella gente, dei timidi desideri, delle piccole gioie delle giornata, dell’innocenza con cui era andata incontro all’amore… era la fine del mondo in cui fino ad allora aveva creduto di vivere


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E che valore poteva mai avere una felicità illusoria, che per esistere presupponeva necessariamente un costante auto-inganno? Quanto poteva essere fragile, se bastava uno sguardo in più oltre quel velo di menzogna per distruggerla miseramente?
Era come pretendere di costruire un grattacielo su una palafitta. Era questo che voleva lei? Una vita in bilico, legata a un filo d’inconsapevolezza che all’improvviso poteva spezzarsi? No.

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Il lento sciabordio dell’acqua le cullava i sensi, tesi fino allo spasmo, mentre col naso all’insù ammirava la distesa scura e stellata del cielo. Il suo manto, tiepido e umido in quella notte di fine estate, sembrava voler proteggere quel momento dagli occhi indiscreti del mondo.
Il loro momento.

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Raccolse le forze che le rimanevano e si chinò ad afferrarlo, per cercare di trascinarlo via con sé sulla sabbia che turbinava vorticosamente intorno a loro, infilandosi negli occhi, in bocca, impedendole di urlare e costringendola ad avanzare alla cieca, guidata solo dalle proprie mani.
Ma lui si ritrasse.
Incredula si gettò su di lui, mettendo una nuova sconosciuta forza nel tentativo di afferrarlo una volte per tutte, di tenerlo stretto al proprio petto mentre insieme scappavano via, via da quell’inferno di sabbia e acqua e oscurità senza fine.
Allora capì.

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Se lo sfilò, sostando seminuda davanti allo specchio a figura intera dell’armadio. Osservò la figura sottile e baluginante di bianco nella fievole penombra creata dalla lampada sul comodino.
Ombre scure si allungavano negli angoli della camera e sfioravano il suo corpo, insistendo sulle ossa sporgenti del fianchi e del collo, contaminandola di nauseanti macchie che le ricordarono quelle dell’incubo. Le fissò per un po’, quasi ipnotizzata.